In questi giorni m'è tornata fra le mani una vecchia cosa, iniziata tempo fa e mai finita, dove confluivano i ricordi di naja. Questo racconto d'ambientazione militare non è un testo veramente autobiografico. I particolari autentici servono a rappresentare i personaggi con realismo e vivacità, ma il protagonista ha una sua storia precedente alla naja (ragazzo difficile, con una passione per la vita militare e fidanzata a Beirut) mentre il ritmo degli avvenimenti è, per esigenze narrative, più serrato che nella realtà. Inoltre la vicenda è ambientata nel 1978, ma l'archivio memoriale a cui attingo risale a tre anni dopo. Ciò premesso, ho cercato di rendere attraverso una serie di quadretti gli avvenimenti salienti dei primi giorni, in cui si prendeva contatto con l'ignota e misteriosa realtà della naja. A differenza di quanto avviene oggi, il militare quasi nessuno voleva farlo, molti s'ingegnavano in ogni modo per evitarlo o addolcirlo e in ogni caso se ne sapeva veramente poco. La specialità paracadutisti veniva scelta durante la visita di leva, perlopiù abbagliati dall'uniforme del caporale reclutatore o sedotti da un filmato pieno di lanci. Il primo approccio era traumatico: enorme quantità di cose da imparare, trattati a urlacci come pecoroni, capire poco o niente, sempre di corsa, sempre cazziati, sempre a pompare, continuamente puniti. Lo scarso uso dell'italiano trasformava il caos generale in una Babele dialettale. I graduati, più o meno italofoni, facevano di tutto per "convincerti" a rinunciare, cioè a chiedere di continuare la tua naja in altra specialità. Rinunciavano in molti, fin dai primi giorni, e un più alto numero si sarebbe variamente dileguato fino ai lanci di brevetto, nel giro di circa un paio di mesi. La continua scrematura dei ranghi fondava nei sopravvissuti un'ingenua ma orgogliosa consapevolezza di sé. Non che la fase d'istruzione andasse oltre addestramento formale, qualche visita al poligono e i lanci di brevetto, se ne sarebbe accorto chi (la maggioranza) finiva in un Battaglione e ricordava i tempi di Pisa come una specie di vacanza. In ogni caso le difficoltà c'erano, sonno e freddo su tutte. Ma c'era anche lo spirito scanzonato dell'età, che aiuta a superare i momenti brutti. Alcuni però, non gravati dalla maledizione del 30/A (incarico fuciliere assaltatore), s'arrabattavano per restare e sopravvivere al meglio in quella che i maligni di Siena chiamavano Smifant. Dal corso AGI (caporale istruttore) ai vari uffici di cui la Gamerra pullulava, era tutta una corsa a trovare un paraculo, un gancio, qualsiasi cosa ti salvasse dal finire al Battaglione per fare il fuciliere. I personaggi sono frutto di libera ispirazione alla realtà della Folgore, che supera ogni fantasia
A Pisa piove. Non c’è la banda militare ad accoglierci, come immaginava uno sul treno. Vedo una cinquantina di civili inquadrati, sull’attenti, mani al cielo. Davanti a loro, i parà. Visiera della Portoghese sugli occhi, mento altissimo, sguardo sprezzante. Sul petto il brevetto di paracadutismo militare. La giacca dell’uniforme da fatica e combattimento, detta “la Verde”, è portata aderente, tagliata all’altezza del bacino, stretta dal cinturone. I tasconi della giacca sono stati ricuciti sui pantaloni. Ai piedi gli stivaletti da lancio, lucidissimi e legati in maniere differenti a seconda dell’anzianità. Li raggiungo, un tenente mi blocca con la forza dello sguardo: - Lei?
Sorrido: - Sono qui per fare il parà.
- Allievo, caxxo! Si dice “comandi”. E si schiaffi sull’attenti!
Un graduato tende la mano destra: - Cartolina-precetto e documento.
L'ufficiale ringhia: - In fila con gli altri!
Vado in fondo e alzo le braccia. Un gruppetto di coscritti, chiacchierando distrattamente, prende il sottopassaggio per uscire. Poco dopo li vediamo risalire le scale di corsa, spinti a pedate da un caporalmaggiore urlante. S’uniscono alla fila, braccia alte, espressione confusa e triste. I parà s’aggirano tra noi, sghignazzando: - La vita civile è finita. E mo’ son tutti cazzi vostri!
L’ufficiale sbraita che aspettiamo altri treni. Noi siamo autorizzati a mantenere quella comoda posizione. L’immancabile romano sbruffone strilla dal mucchio: - A tene’, quanno se magna?
Il volto dell’ufficiale si fa rosso più del suo basco: - Allievi, corsa sul posto!
Passiamo circa un’ora alternando flessioni, skip, periodi di estensione delle braccia in alto. Nel frattempo arrivano altri treni, ora saremo oltre un centinaio. Ci conducono nel piazzale, saliamo uno a uno sui camion, detti CM, coi tendoni sollevati. Nel tragitto verso la caserma, ci vengono impartite le prime sommarie istruzioni. Che cosa fare, non fare, quando e come rivolgersi a un superiore. Il tutto generosamente cosparso di - E mo’ son tutti cazzi vostri!
In caserma, smontiamo dai CM tra le urla dei caporali: - Sveglia! Schizzare! Morfine, di corsa!
- Allineati e coperti, rapidi caxxo!
- Allineati vuol dire in linea, coglione!
- Non devo vedere nessuna testa di caxxo dietro questa faccia da ****! Copertiii!!
Sul piazzale pulitissimo rimbomba l’attenti. Il tenente, voce rauca: - Avete chiesto l’alto onore di servire la Patria nella Folgore. Se ne siete degni, si vedrà presto. Qui non prendiamo cani morti e minchie bollite. Qui prendiamo uomini, e li trasformiamo in paracadutisti. Soldati d’élite. Il basco amaranto lo dovrete meritare. Sarà dura, durissima. I migliori tra voi ce la faranno. Gli altri prima si levano dai coglioni meglio è. Vi ricordo che in qualsiasi momento potete chiedere il proscioglimento dalla ferma volontaria nei paracadutisti, ed essere assegnati ad altra specialità.
Veniamo divisi in gruppi. Un caporale, cordone azzurro alla spalla sinistra, ci prende in custodia. Sguardo minaccioso, cadenza tartara: - Allievi, orecchioqua! Io sono il caporale istruttore Morabito, e comando questa squadra. Dovete fare i botti e schizzare in cielo. E vi giuro che schizzerete, min kia! In fila per cinque!
A passo di marcia, raggiungiamo l’edificio. Gli allievi non possono transitare per l’ingresso principale, debbono servirsi d’una porticina sul retro. L’ingresso della servitù.
Entriamo, lungo corridoio. Niente termosifoni, diversi vetri rotti. Noi battiamo i denti. Gli anziani, raffiche di stecche sibilando: - Moriireee.
Un ragazzo, fisico minuto e occhiali, mormora sgomento: - Ma dove sono finito…
Spunta il faccione sogghignante dell’istruttore: - Nella Folgore. E ci sei pure venuto volontario, coglione!
Stanzone freddo e buio. Al fondo due parà seduti dietro una vecchia scrivania con una macchina da scrivere. Chiamati uno alla volta, bisogna urlare: - Comandi! - Schizzando verso la registrazione del nominativo e l’inserimento nei ruoli militari. Quand’è il mio turno il cuore accelera. Sono ufficialmente un parà. Dopodiché mi danno da firmare una cartolina dattiloscritta, indirizzata alla famiglia, con un paio di frasi rassicuranti. Eseguo, vado sull’altro lato della stanza.
- Bottero!
Il ragazzo con gli occhiali: - Presente.
Piomba lì Morabito: - Si dice “comandi”, testa di min chia!
Bottero, spaurito, mormora qualcosa.
Il caporale lo spinge indietro: - Più forte, non sento.
Nuovamente le labbra del giovane si aprono.
- Indietro, morfina, urla più forte!
Il ragazzo retrocede, spintonato dall’istruttore. I due oltrepassano la porta della stanza, Morabito rientra e lo chiama nuovamente.
Dall’esterno s’ode un flebile: - Comandi.
- Non sento un caxxooo!
- Comandi.
- Ti piglio a calci nei coglioni, mezzasega!
- Comandi!
Il parà alla macchina da scrivere ghigna: - Vieni avanti, cretino.
Celebrato il rito dell’incorporazione, veniamo condotti, sempre in fila per cinque, davanti al magazzino per la vestizione. Tira vento, pioviggina, ma bisogna restare immobili. Unico movimento tollerato, battere i denti.
Morabito, tono cordiale: - Freddo, allievi?
Bottero: - Un po’.
- Allievi, a terra!
Attendiamo serenamente, circondati da parà premurosi che ci aiutano a combattere il freddo con le flessioni. A me non pesa, sono allenato. Però Bottero è veramente un cretino.
Puzza di casermaggio nell’aria umida, finalmente il mio turno. Dietro un lungo bancone, i magazzinieri fanno finta di chiedere la taglia e ti danno quello che capita. Finisco di raccattare la mia roba. Tuta ginnica azzurra, col simbolo della Brigata, la Verde, un basco amaranto grande quanto una pizza, il berretto con visiera rigida detto “stupida”, maglione a collo alto con zip, magliette, calze, e persino un bizzarro completo intimo. Maglia a maniche lunghe e mutandoni a pantalone. Come nei film di Trinità, che mi piacciono tanto. Ridacchiando, stipo tutto nello zaino valigia e corro in fila con gli altri.
continua...
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