Allarme jihadista in Piemonte
Nel Torinese operano da tempo nuclei e personaggi in stretto legame con le organizzazioni terroristiche dell'Islam. Dopo i casi degli imam espulsi, Digos e intelligence puntano i fari su "Giustizia e carità", sodalizio che arruola europei per la guerra santa
Forse nel diario di Giuliano Ibrahim Delnevo, il giovane jihadista genovese morto un anno fa in Siria, non si troveranno i nomi di altri italiani o immigrati che dal nostro Paese sono partiti per combattere al fianco degli islamisti in quella che viene definita la legione straniera del jihad. Più probabilmente gli analisti della polizia e dell’intelligence, da quel quaderno di cui è riuscita ad entrare in possesso mesi fa la madre del giovane ucciso durante un viaggio in Siria e oggi acquisito agli atti dalla Procura della Repubblica di Genova, potranno ricavare informazioni, addirittura più utili rispetto alle stesse identità di quella quarantina o più che ormai è certo abbiano lasciato l’Italia per infoltire le file dei terroristi dell’Isis. Già ora quella di Delnevo è una storia che, tra luci ed ombre, racconta alcuni particolari che a distanza di un anno e con la recrudescenza delle azioni di quello che è ormai un genocidio e rappresenta una crescente minaccia per l’Occidente vedono, tra l’altro, Torino e il Piemonte tra i luoghi su cui gli apparati dell’intelligence e dell’antiterrorismo concentrano maggiormente la loro attenzione. Peraltro, non da oggi.
Sei anni fa, in uno dei primi giorni di gennaio Mohamed Kuhaila, 44, marocchino, imam di Porta Palazzo viene imbarcato su un volo per il Marocco: espulso. Mesi prima le telecamere di Annozero avevano mostrato le riprese, fatte con una telecamera nascosta, in cui l'imam predicava violenza verso gli atei e incitava alla guerra santa mentre nella stessa moschea alcuni fondamentalisti ribadivano il richiamo dello stesso imam ai musulmani a non integrarsi con cristiani ed ebrei, perché infedeli. Una nota del ministero spiegherà che “il provvedimento di espulsione è stato adottato sulla base di scrupolosi accertamenti condotti dagli uffici centrali e periferici dell’antiterrorismo che hanno consentito di trarre elementi a supporto della pericolosità del Kuhaila, con particolare riguardo alla sua conclamata attività di proselitismo e induzione a condotte violentemente anti-occidentali e ai rapporti mantenuti con estremisti contigui al jihadismo militante”. Kuhaila era diventato imam di Porta Palazzo tre anni prima, quando ad essere espulso dall’Italia per motivi di sicurezza era stato il suo predecessore Bourichi Bouchta. Da una ventina d’anni a Torino, proprietario della più nota macelleria islamica della città, Bouctha nel periodo in cui è imam balza alle cronache per le sue idee radicali e integraliste, come la richiesta di consentire alle donne musulmane di tenere il velo nelle fotografie dei documenti di identità.
Ma forse c’è di più e di peggio, tanto che una notte viene prelevato dagli uomini della Digos. L’allora ministro degli interni Beppe Pisanu ha già firmato il decreto di espulsione e a Malpensa c’è un aereo pronto a decollare per Casablanca. Più tardi si saprà che i servizi e la Digos avevano elementi in grado di confermare come Bouchta nel gennaio 2000 aveva promosso una raccolta di denaro per i guerriglieri ceceni e il reclutamento di volontari per la Jihad. Non solo. Anni prima, verso la fine del 1992, proprio a casa Bouchta, in via Orvieto 28, è segnalata la presenza di Abou Khalid, istruttore militare delle milizie musulmane in Bosnia-Erzegovina. E l’anno precedente l’espulsione di colui che succederà a Bouchta, ovvero Kuhaila, tocca a un altro imam prendere la via forzata del ritorno in patria: “turbativa dell’ordine pubblico e pericolo per la sicurezza dello Stato” sono le motivazioni alla base del provvedimento di allontanamento nei confronti di Fall Mamour, alias Abdul Kadel, alias El Fkih, più noto come l’imam di Carmagnola. In realtà a Carmagnola una moschea non c’è mai stata e l’imam viveva con la moglie italiana, convertita all’Islam, e i figli in una vecchia scuola elementare in disuso alla periferia della cittadina. Muri sbrecciati, un computer, musica araba a tutto volume, ma anche un numero imprecisato di cimici piazzate a tempo debito dall’antiterrorismo. Un personaggio che recita volentieri il ruolo di guascone ma che secondo alcuni rapporti informativi gestirebbe flussi di denaro di incerta provenienza e che si teme possano alimentare le casse dello Jihad. La sua espulsione diventa prima un caso politico, con le perplessità sollevate da Massimo D’Alema e basate sul fatto che si espella una persona che è sposata con una cittadina italiana, quindi giudiziario con il Tar che accoglie il ricorso contro il provvedimento presentato dallo stesso imam, motivando la decisione con la scarsità di documenti a supporto della decisione assunta dal ministro.
Comunque sia, Abdul Kadel non tornerà a Carmagnola, tre anni dopo dal Senegal arriva la notizia che nel suo Pese ha fondato un partito islamico osteggiato dal governo. In un’intervista l’ex imam spiega di trovarsi “insieme ad altri musulmani provenienti dai paesi dove sono attivi gruppi islamici armati”. La moglie, Aysha Barbara Farina si occupa di traduzioni. “Nonostante tutto, siamo riusciti a portare avanti il nostro lavoro” dice e rivolgendosi ai “cari fratelli e sorelle d’Italia che non ci avete dimenticato nelle vostre preghiere”, chiede loro di “di pregare tanto per noi, perché inshaAllah un giorno possiamo fondare qui in Africa occidentale uno Stato Islamico, dove tutti voi oppressi dai governi europei, servi dei sionisti e colonie degli Usa, possiate venire a vivere in pace la nostra meravigliosa religione, l’Islam”.
Fuor di dubbio in questa chiamata alle armi, che parte da lontano nel tempo, Torino ha un ruolo di rilievo. Lo confermano carteggi del Viminale, così come ambienti dell’intelligence. Una di queste tante conferme riguarda gli attentati a Madrid del marzo 2004. Mohamed Rabei, ritenuto la mente di quelle azioni terroristiche fu arrestato dalla Digos a Milano grazie a un’intercettazione effettuata dagli investigatori torinesi, che avevano appurato come lo stesso Rabei fosse impegnato in un’operazione di reclutamento di giovani da formare alle tecniche terroristiche. Sempre a Torino un insospettabile operaio, Noureddine Lamor, - verrà espulso nel 2003 - si era scoperto essere il capo della cellula qaedista “dormiente” sotto la Mole, ma attivo almeno dalla fine degli anni Novanta con frequenti spostamenti in Iran, Yemen, Turchia, Pakistan e Afghanistan. C’è poi – tra le carte del ministero – la storia del venditore ambulante pakistano Ahmed Naveed che, a metà del decennio scorso, movimenta ingenti somme di denaro, probabilmente usato per addestrare i futuri combattenti jihadisti in partenza dall’Italia. Quei soldati della legione straniera del jihad, come il giovane genovese morto in Siria un anno fa. La sua storia, probabilmente simile se non uguale a quella di molti dei quaranta o più italiani che si ha ormai certezza siano andati a combattere in nome dello stato islamico, incomincia con la conversione all’Islam grazie all’incontro con alcuni immigrati maghrebini.
Ambienti dell’intelligence ritengono che siano stati proprio alcuni di quei maghrebini ad aver messo in contatto il giovane ligure con il gruppo jihadista marocchino chiamato “Giustizia e carità”, in arabo Adl Wan Ihassan, ritenuto fuorilegge dal governo marocchino, composto da personalità islamiche moderate fermamente in opposizione all’integralismo. Gli stessi servizi di sicurezza marocchini attribuiscono a Giustizia e Carità due finalità principali. Secondo i servizi marocchini, i principali obiettivi della rete di sono due: la raccolta di fondi per il jihad e il reclutamento. Giustizia e Carità avrebbe, inoltre, un ruolo nel favorire l’espatrio verso i centri di addestramento prima e le zone di guerra poi di quegli europei, indigeni o immigrati di prima o seconda generazione, che decidono di arruolarsi nella legione straniera del Jihad. Ma Giustizia e Carità è un nome non nuovo a Torino. Rimanda all’Associazione islamica delle Alpi, in via Chivasso. Ha anche un sito interne dove, tra l’altro si legge: “L’Associazione islamica delle Alpi è nata nel 18 dicembre 1998, per avere come scopo quello di creare un ponte tra la comunità musulmana di Torino e gli Italiani, un ponte che deve essere di tolleranza, dialogo e di confronto basato sul rispetto reciproco e la solidarietà cercando in questo modo, con i propri mezzi, di ridurre al massimo i punti di disaccordo e incrementare i punti d’incontro. L’Associazione Islamica delle Alpi, fondata da immigrati Magrebini di diverse provenienze e diversi mestieri (operai, artigiani, studenti, piccoli imprenditori, etc...) con i loro piccoli sforzi e modesti mezzi, ha stabilito come uno dei suoi obiettivi quello di educare a valorizzare le diversità in tutte le sue forme come fattore di ricchezza e avvicinamento e non di rottura e incomprensione”. A prima vista, nulla di più lontano dalla guerra santa, dal martirio in nome dello stato islamico. Quello per cui da Genova era partito Giuliano Ibrahim Delnevo, con l’appoggio – a quanto risulterebbe a fonti dell’intelligence – di personaggi genovesi della rete di Giustizia e Carità. Che, in Italia, avrebbe la sua sede principale proprio a Torino.
Fonte: lospiffero.com
Ma secondo voi, da 1 a 10 quanto siamo a rischio noi cittadini Italiani da questi islamici jihadisti?
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