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Discussione: Fino all'ultimo respiro

  1. #1

    Predefinito Fino all'ultimo respiro

    FINO ALL'ULTIMO RESPIRO
    Il vicecommissario Giovanni Rizzo e il bandito Sante Pollastri


    E' una storia strana, quella che sto per narrare. Strana e di difficile ricostruzione perché, al di là del tempo trascorso, i suoi protagonisti hanno tutti una storia ammantata di mistero. Siamo in Italia, anni Venti del Novecento: la Grande Guerra ha lasciato cicatrici insanabili in un Paese che, sebbene vincitore sulla carta, è di fatto uscito da quel conflitto letteralmente massacrato sia a livello economico che sociale. La disoccupazione è alle stelle, dalle campagne si riversano nelle metropoli centinaia di reduci alla ricerca di quell'impiego tanto promesso ma mai concesso. Si stanno formando i "Fasci di Combattimento", primo embrione di maggiori disgrazie e gli scioperi, quelli duri e cattivi, sconquassano piazze e città lasciando sul selciato morti e feriti sia tra i manifestanti che tra le Forze dell'Ordine.
    Sono tempi duri, terribilmente duri. Non c'è spazio per la debolezza, in una quotidiana lotta per la sopravvivenza. E la criminalità non è da meno: rifugio per i più disperati, annovera tra le sue fila i delinquenti più feroci, gente senza scrupoli che consegnerà alla Storia pagine insanguinate ma anche personaggi mitizzati per le loro gesta. Furono anni di risposte quasi colpo su colpo da parte degli investigatori: tra essi spiccarono figure esemplari, alcune spinte fino all'estremo sacrificio. Nel Nord Italia abbiamo decine di esempi: ci soffermiamo su uno di essi che fece spargere mari di inchiostro sui giornali e che da fenomeno "locale" divenne ben presto un problema internazionale: anzi, un affaire, come si diceva allora.

    La prima figura di cui ci occupiamo fu quella di colui che scelse il Male come stile di vita, rifiutando ogni compromesso con la Legge e pagandone lo scotto senza rimpianti. Si chiama Sante Pollastri, vede i suoi natali a Novi Ligure nel 1899: di lui non sappiamo nulla fino a quando decide di "saltare il fosso". Non sappiamo nemmeno il perché di una simile decisione: la leggenda che avvolge i suoi esordi offre un panorama di cause tra le più eterogenee, da quelle politiche a quelle più personali. Si narra dell'uccisione di un suo parente da parte dei Carabinieri durante un furto in un appartamento piuttosto che della morte di suo fratello avvenuta in una caserma del Regio Esercito ove era stato condotto a forza per espletare il servizio militare nonostante le sue precarie condizioni di salute; c'è chi azzarda l'uccisione da parte del Pollastri di un Carabiniere responsabile di averne violentato la sorella; si arriva addirittura a paventare una furiosa rissa con alcune Camicie Nere in cui Sante fu percosso con inusitata violenza tale da farlo transitare su posizioni anarchiche. Tuttavia nessuna di queste tesi trova una conferma ufficiale, contribuendo invece a innalzare la cortina di mistero che avvolge quest'uomo.

    Una delle ultime immagini di Sante Pollastri ritratto dopo la sua scarcerazione


    "Fu antica miseria o un torto subìto
    A fare del ragazzo un feroce bandito..." (F. De Gregori, Il bandito e il campione)


    L'unica cosa sicura è la ferocia con cui Pollastri (soprannominato negli ambienti della mala "Pollastro) si cimenta nelle sue imprese criminose: sono almeno sette le sue vittime solo tra le Forze dell'Ordine. Tra esse, nel solo 1926 l'assassinio di due Carabinieri a Mede e di due Poliziotti (il brigadiere Sebastiano Pulvirenti e il maresciallo Giovanni La Corte) in un'osteria di via Govone a Milano. La sua vita alternò momenti di latitanza a imprese criminose anche eclatanti, quali ad esempio la rapina alla gioielleria Rubel di Parigi. Da molti settori dell'estremismo politico la sua figura venne mitizzata come l'antitesi al fascismo rampante, facendo leva su presunti atti di liberalità e di appoggio ai più deboli ed emarginati, tanto che si guadagnò l'appellativo di "Robin Hood". Questo non deve stupire: gli anni Venti sono un'epoca strana, come ho detto. Nessuno va tanto per il sottile e guarda caso poco distante, nel Veneto, c'è un altro bandito che si guadagna il medesimo appellativo: è Giuseppe Bedin, capo dell'omonima banda criminale che getterà nel terrore addirittura il Nord Italia con le sue imprese, ma soprattutto con la sua ferocia, fino al più tragico degli epiloghi. Eppure il fascino che questi criminali raccoglievano tra la gente è indiscusso, solo a leggere le cronache del tempo e pure sfrondandole dalla retorica giornalistica che le permeava.
    L'ulteriore particolare che caratterizza questo personaggio è l'indiscussa amicizia che lo legava con un altro grande nome dello sport di allora: quello del ciclista Costante Girardengo, di cui condivideva i natali e la prima fanciullezza.

    Costante Girardengo: l'amicizia con Sante Pollastri fu tra le più discusse ma anche tra le più misteriose


    "Due ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta
    Un'unica passione per la bicicletta
    Un incrocio di destini in una strana storia
    Di cui nei giorni nostri si è persa la memoria...." (F. De Gregori, Il bandito e il campione)


    Le loro vite ebbero in effetti molto in comune: oltre alla bici, le donne e la buona cucina. Anche all'apice della sua carriera Girardengo non smentì mai i rapporti con Pollastri, nemmeno di fronte all'Autorità Giudiziaria quando fu chiamato a testimoniare su alcuni fatti: questa chiamata al pretorio fece sospettare ai più maliziosi che fosse stato proprio Girardengo a fare la "soffiata" giusta alla Polizia. Non fu mai provato. Facile rinnegarla, ma il vincolo di amicizia sincera era forte e indissolubile anche quando ben presto le loro strade di adolescenti si separarono irrimediabilmente.
    Tanta fu la passione di Girardengo nel conquistare i vari titoli ciclistici, quanto quella di Pollastri nell'inanellare rapine, furti, assassinii in un'escalation che gli fece assumere tra le Forze dell'Ordine un ben meno romantico appellativo: quello di "Nemico pubblico n° 1" sulla cui testa vennero posate le taglie più alte e la cui cattura divenne la priorità assoluta per gli investigatori di allora.

    "Dietro le curve del tempo che vola
    C'è Sante in bicicletta, in mano ha una pistola
    Se di notte è inseguito spara e centra ogni fanale,
    Sante il bandito ha una mira eccezionale.
    E lo sanno le banche, e lo sa la Questura
    Sante il bandito mette proprio paura!
    E non servono le taglie, non basta il coraggio,
    Sante il bandito ha troppo vantaggio..." (F. De Gregori, Il bandito e il campione)


    La collaborazione con le autorità francesi, instauratasi all'indomani della rapina alla gioielleria Rubel e del compimento di altre gesta criminose nel Paese d'oltralpe, fecero sospettare agli inquirenti appoggi in ambito politico, soprattutto nelle aree anarchiche italo-francesi i cui legami si erano andati consolidando. Non era insomma pensabile che un delinquente, per quanto abile, riuscisse a comparire e scomparire nel nulla senza lasciare una traccia, ma soprattutto senza cadere nelle innumerevoli trappole tesegli in varie occasioni. La più terribile quanto a tragici risultati gli fu tesa a Milano il 17 novembre 1926: qualche giorno prima nel capoluogo lombardo durante una rapina era stato assassinato un orefice. La Polizia era sul piede di guerra e aveva messo in strada i migliori "segugi": ben presto arrivò l'imbeccata giusta che fece localizzare in un'osteria di via Govoni il probabile rifugio dei rapinatori assassini. Per l'operazione di cattura la Squadra Mobile compose una squadra fatta di due brigadieri e un maresciallo noti per la facilità con cui si infiltravano negli ambienti malavitosi senza essere scoperti: il maresciallo Giovanni La Corte e i brigadieri Sebastiano Pulvirenti e Carlo Montanari. Il piano congegnato con la moglie dell'oste (sospettato di connivenza) era semplice quanto audace. I poliziotti, mescolatisi agli altri avventori travestiti da operai, attesero l'arrivo dei banditi segnalati da una frase concordata che avrebbe dovuto pronunciare la donna. Quando ciò accadde, gli agenti bloccarono i due sospetti, uno dei quali era proprio Sante Pollastri. Ne scaturì una furibonda colluttazione in cui il bandito riuscì ad esplodere alcuni colpi di pistola contro Pulvirenti e La Corte, uccidendoli. Montanari si salvò unicamente per il fatto di essere rotolato nella sottostante cantina avvinghiato al complice di Pollastri che parimenti riuscì a fuggire.
    La misura era davvero colma: le cronache dell'epoca si lanciarono in roboanti elucubrazioni che, se da un lato accrebbero la fama del bandito Pollastri, dall'altro misero in forte imbarazzo la Polizia. La risposta fu immediata quanto azzeccata.
    Negli uffici di piazza San Felice (vecchia ubicazione della questura milanese) c'era un giovane vicecommissario, il secondo personaggio di cui ci occupiamo. Si tratta di Giovanni Rizzo, un nome importante che era già balzato agli onori delle cronache per avere catturato gli autori dell'attentato dinamitardo al teatro Diana avvenuta a Milano il 23 marzo 1921 e che aveva provocato una strage con 23 morti e decine di feriti. Rizzo è uno tosto: sempre stato in strada fin dal suo approdo alla questura milanese nei primi anni 10, "pupillo" del questore Gasti, aveva un intuito particolarmente sviluppato che gli permise di sgominare anche un importante traffico di cocaina che aveva coinvolto anche elementi di spicco dei "salotti buoni" meneghini. Riuscì ad arrestare uno dei primi serial killer di prostitute che, dopo averne ammazzata una, aveva in progetto di proseguire nell'impresa. Il suo nome compare spesso nelle cronache de Il Corriere della Sera, quindi la scelta del suo nome appare in quel momento l'unica alternativa possibile per uscire da quell'imbarazzante impasse.

    Una rara immagine del questore Gasti e di un giovanissimo vicecommissario Rizzo


    "Ma un bravo poliziotto che sa fare il suo mestiere
    Sa che ogni uomo ha un vizio che lo farà cadere.
    E ti fece cadere la tua grande passione
    Di aspettare l'arrivo del tuo amico campione.
    Quel traguardo volante ti vide in manette
    Brillavano al sole come due biciclette.
    Sante Pollastri il tuo Giro è finito
    E già si racconta che qualcuno ha tradito" (F. De Gregori, Il bandito e il campione)


    Rizzo sa come muoversi: passa le sue prime fasi di indagine facendo come gli avevano insegnato, vale a dire studiando la vita del ricercato. "Spulcia" ogni tassello, ricomponendo un puzzle che all'inizio poteva sembrare addirittura impossibile: c'era sempre un pezzo che mancava.... Rizzo riesce a trovare il bandolo della matassa legando tre fattori importanti: i natali di Pollastri, la sua amicizia con Girardengo con cui condivideva la stessa passione e la sua dimestichezza nei movimenti in terra francese. Siamo nel 1927, guarda caso in quel periodo Girardengo è impegnato proprio nel Tour de France. Le indagini si fanno serrate, con la collaborazione indispensabile dell'organo collaterale francese rappresentato dal commissario Guillaume. Gli informatori francesi avevano a loro volta fatto capire che un uomo descrittivamente simile a Pollastri era stato notato bazzicare gli ambienti malavitosi parigini in cerca di copertura. Ergo, la battaglia si doveva giocoforza spostare in terra parigina.
    Il 17 luglio è una giornata torrida, non solo climaticamente. A Parigi c'è la tappa finale del Tour, cui partecipa anche Girardengo sebbene con risultati abbastanza deludenti. Rizzo e Guillaume schierano uomini ovunque, non si sa se su imbeccata di qualche informatore o se sulla base di semplici quanto azzeccate congetture. Sta di fatto che la mossa è quella giusta: tra gli spettatori che cercano di avvicinarsi a Girardengo c'è anche lui, Sante Pollastri. Gli saltano addosso senza dargli la possibilità di reagire, anche se le cronache non specificano se nell'occasione il bandito fosse armato o no. La sua carriera criminale finisce lì, sul selciato del traguardo di una gara ciclistica.

    "Ma al proprio destino nessuno gli sfugge,
    Cercavi giustizia ma trovasti la Legge" (F. De Gregori, Il bandito e il campione)


    Sante Pollastri venne estradato in Italia, giudicato da un Tribunale e condannato all'ergastolo per gli assassinii e per le rapine che gli vennero addebitati. Fu inviato al carcere dell'isola di Santo Stefano senza avere mai avuto un pentimento. Al magistrato che lo interrogava sui moventi che lo spinsero a uccidere e rapinare, egli si limitò a rispondere con una frase laconica: "Ho le mie idee".
    Queste idee non le condivise mai con nessuno, neanche quando nel 1959 uscì dal carcere a seguito della grazia concessagli dal presidente Gronchi. Trascorse i suoi ultimi anni vivendo di mercati ambulanti. Si spense nel 1979 nel suo paese natale.
    Del commissario Rizzo ci resta un ricordo inglorioso, quasi che la maledizione di Pollastri lo avesse in qualche modo condizionato. Il 12 aprile 1928, in occasione della IX°Esposizione della Fiera di Milano, una bomba collocata all'interno del basamento di un lampione esplode poco prima del passaggio di re Vittorio Emanuele III compiendo una strage, l'ennesima di quel periodo tormentato: muoiono subito 14 persone, altre 6 moriranno nei giorni successivi, oltre a un numero impressionante di feriti alcuni dei quali resteranno mutilati. Le indagini vennero subito condotte da Rizzo, divenuto questore, che imboccò la pista anarchica sulla base di alcuni sospetti che si rivelarono però infondati. Dio solo può sapere le pressioni cui fu sottoposto in quei giorni il dottor Rizzo: tali pressioni gli fecero prendere una terribile "cantonata" con l'incarcerazione di quattro persone dell'area anarchica rivelatesi poi assolutamente estranee alla vicenda. Dall'esame del materiale d'epoca si può dedurre che quelle indagini partirono da subito con il piede sbagliato, frammentando inopportunamente i vari filoni che furono assegnati a investigatori non solo di estrazione completamente diversa, ma anche politicamente ben schierati: si vide la partecipazione dei funzionari della questura ma anche dei vertici della Milizia Ferroviaria (console Vezio Lucchini) per il fatto che pochi giorni dopo vennero individuati alcuni soggetti che stavano minando la sede ferroviaria a Milano Rogoredo: l'intervento della MVSN Ferroviaria ritardò per settimane le indagini della questura, compromettendone di sicuro i risultati in una insensata corsa al primo posto nella risoluzione del caso. A danno si aggiunse danno con l'intervento dell'OVRA, le cui indagini parallele e non condivise con gli altri imboccarono ulteriori strade che, oltre a rivelarsi impraticabili, fecero perdere tempo prezioso danneggiando irrimediabilmente i risultati. L'impasse investigativo provocò terribili "mal di pancia" istituzionali, tanto che il Capo della Polizia Arturo Bocchini dovette intervenire energicamente nel vano tentativo di riunificare i fari filoni di indagine. Ma ormai era tardi. Esse si prolungarono ancora senza risultati fino al 1943 quando Badoglio tentò di darvi nuovo impulso. Ma la nave era ormai incagliata. Per sempre.

    La strage al teatro Diana del 23 marzo 1921 così come riportata dal Corriere


    Il questore Giovanni Rizzo pagò per colpe non sue: fu rimosso e assegnato alla scorta di Gabriele D'Annunzio, un compito residuale di secondo piano e sicuramente immeritato per questo abile funzionario. Prima di morire redasse una sua autobiografia in cui, come scrisse qualcuno, "si avverte tutta l'amarezza e il dolore di chi vede crollare tutto ciò che aveva creato".

    "Vai Girardengo, vai grande campione!
    Nessuno ti segue su quello stradone.
    Vai Girardengo non si vede più Sante
    E' sempre più lontano, è sempre più distante
    E sempre più lontano, è sempre più distante..." (F. De Gregori, Il bandito e il campione)



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