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Discussione: Racconti storici della Polizia Penitenziaria

  1. #1
    Maresciallo
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    Predefinito Racconti storici della Polizia Penitenziaria

    Salve a tutti, vorrei dedicarvi una serie di racconti trovati in rete, riguardanti lo storico genenerale (all'epoca dei fatti Capitano) Enrico Ragosa.
    Racconti che dimostrano il lavoro degli ex agenti di custodia...da leggere
    Tratto dal periodico mensile del sappe

    Enrico Ragosa: Maxiprocesso, sequestratori e terroristi


    La sera del 9 febbraio 1986, vigilia dell’inizio del Maxi Processo, Enrico, io e altri cari colleghi, eravamo all’interno dell’Ufficio Matricola dell’Ucciardone. C’era chi dettava e chi batteva a macchina. La vecchia Olivetti! Si preparavano gli ultimi stampati, gli ultimi elenchi riguardanti il processo. Si lavorò fino alle cinque di mattina. Il Capo mi disse: “Beppe, ormai è inutile andare a letto. Facciamoci una doccia e poi ci rechiamo in aula!”. Ne convenni. Mai avremmo potuto rinunciare ad assistere all’inizio del Maxi Processo. L’evento era storico! Lo testimoniava anche la presenza delle tivù di mezzo mondo. Ci sedemmo nel settore di sinistra rispetto alla Corte. Ma eravamo esausti! Il frastuono nell’aula conciliava paradossalmente il sonno. Mi assopii da seduto. “Bebbe, cosa fai dormi? Ci guarda mezzo mondo!”. Dopo un po’: “Capo, tutto bene?”. Si era assopito anche lui. Andammo avanti così fino alla fine dell’udienza. Ma c’eravamo!

    Fu sua l’idea di informatizzare il Maxi Processo, ovviamente per ciò che concerneva il punto di vista carcerario. A dire il vero, ne beneficiò anche la Corte d’Assise. Ma dietro a questa manovra importantissima, che segnò una svolta epocale per la successiva informatizzazione degli Uffici Matricola, ci furono tante notti di lavoro. Era riuscito a reclutare un Ingegnere informatico, palermitano, molto bravo e competente. Equilibrato. Anche simpatico. Era disponibile soltanto la sera, dopo cioè il suo normale turno di lavoro. Si prestò a questa scommessa. E la vinse. Insieme a tutti noi. Per la verità rischiò più volte di fumarsi il cervello per le continue, pressanti, assillanti e svariate richieste di Enrico che una ne pensava e cento ne faceva. Il Capo non era mai contento del risultato raggiunto, cercava sempre il meglio. E alla fine lo otteneva. Per la cronaca: anche l’Ingegnere si abituò a chiamarlo Capo, e lavorò al computer anche di notte, con noi.

    A Palermo condividevamo l’Ufficio col Capo. Così come a Napoli, a Trapani o altrove. Il Capo stava sempre in mezzo a noi. Un giorno, dopo aver ricevuto una telefonata, ordinò perentoriamente: “Fra dieci minuti vi voglio tutti in divisa nuovamente qui, in ufficio!”. Così fu! Con noi “zappava” un Appuntato del luogo le cui misure corporali non rispondevano ai normali canoni, per cui la divisa non gli donava tanto. Era un po’ grassoccio! Il problema che era stato rappresentato per telefono al Capo era molto serio, noi lo avevamo intuito ed eravamo naturalmente pronti ma un po’ tesi. Non appena il Capo vide il collega in divisa, esclamò: ”Belìn, quanto fai schifo vestito così! Rivestiti come prima!”. Le risate non furono normali. Il Capo sdrammatizzava sempre prima di un’operazione delicata e pericolosa. Il collega era molto autoironico per cui fu il primo a scoppiare dal ridere. Sappiamo tutti che quando Ragosa “ti prende a parole” è segno che ti vuol bene. “Vai a zappare, buliccio (che in genovese significa gay)!”.

    Il Presidente della Corte d’Assise era contento dell’operato di Enrico. E un giorno gli disse: “Capitano, Lei è un ottimo Comandante!”. Lui rispose: “E’ vero, Signor Presidente. Questo è perché scelgo gli uomini migliori!”. Ha sempre impiegato gli uomini giusti al momento giusto.

    E’ amante della divisa, della forma e della disciplina. La gestione di un importante pentito di mafia richiede un certo rigore nella scelta degli uomini da impiegare per la sua custodia. Enrico ha sempre scelto personalmente i suoi uomini. Giunse nella struttura detentiva un giovane Agente, segnalato da Piero, caro amico e valido collaboratore del Capo. Avvertii Furia che mi autorizzò a farlo entrare in ufficio, voleva prima conoscerlo. Il ragazzo si comportò come se Enrico fosse per lui un vecchio amico. Il Capo lo fece accomodare, si alzò dalla scrivania, fece il giro e gli si sedette di fronte. Gli offrì una sigaretta e gli chiese se gradiva un caffè. Il ragazzo accettò la sigaretta, rifiutò il caffè e cominciò a parlare col Capo quasi a tu per tu! Non aveva capito un tubo. Il Capo mi disse: “Ricominciamo daccapo. Istruiscilo e poi lo riaccompagni!”. Spiegai a quell’Agente che il lavoro che si sarebbe apprestato a fare era estremamente delicato e impegnativo, ed era opportuno che si iniziasse già dal rispetto del grado e delle responsabilità di ciascuno. Il ragazzo capì, ma nel contempo si intimorì. Rientrammo in stanza. Si presentò sugli attenti e rimase in piedi. Il Capo gli disse: “Così va meglio. Adesso chiamami Piero”. Con ciò intendeva dire all’Agente di contattare il suo sponsor, Piero, al telefono e metterlo in comunicazione col Capo. Ma il ragazzo, impaurito, si rivolse timidamente al Capo e lo chiamò, quasi sottovoce: “Piero!”. Scoppiammo a ridere a crepapelle. Ovviamente restò con noi a … zappare!

    Mi viene in mente un ultimo episodio del quale non sono stato un testimone diretto, ma mi è stato raccontato da qualcuno che nel frangente lavorò al suo fianco. Non ricordo molto bene i particolari, ma vale la pena ricordarlo comunque. Marassi era in rivolta. Alcuni detenuti tenevano in ostaggio delle guardie e minacciavano di ucciderle. Anche i Carabinieri avevano fatto ingresso in istituto quale forza di supporto. La situazione precipitava. Enrico decise di entrare in Sezione, cercò di trattare e si offrì quale ostaggio in cambio degli Agenti. Disse ai sequestratori: “Lasciate liberi i miei Agenti. Prendete me in cambio. Vi do anche il ****, ma lasciate i miei Agenti!”. Gli Agenti furono rilasciati, Enrico non fu merce di scambio. Nei giorni successivi la cella interessata fu monitorata. Non esistevano ancora i moderni mezzi della tecnologia e i sequestratori parlavano un dialetto genovese molto stretto. L’unico in grado di comprenderli era proprio Enrico che, all’uopo, si era piazzato all’esterno della finestra della cella, al piano terra. Chinato per non farsi scoprire. Tra i tanti discorsi, sentì anche una frase: “Belin, Ragosa ha offerto il ****. Sarà un po’ buliccio?”. Enrico lasciò perdere la copertura, si alzò e, attraverso la finestra, replicò: “Buliccio a chi!?”. L’operazione era tecnicamente fallita. Successivamente, per fortuna, nacque il pentito!

    Capo, ho voluto unirmi ai tanti cari amici e colleghi che Le hanno tributato ancora una volta il loro affetto, la loro amicizia e il loro ringraziamento.

    Quel ragazzo siciliano, che volle testardamente tornare in Sicilia, La ringrazia ancora una volta per tutto il bene che ha ricevuto, per quelle volte che Lei gli ha salvato la vita e per i Suoi insegnamenti che custodisce gelosamente nel proprio cuore. A presto, per poter ricordare insieme. Un caro abbraccio,

    Beppe


    Enrico Ragosa: come trattava i camorristi e mafiosi e come trattava il suo personale

    Il Capo continuò a girare gli istituti caldi della Repubblica, inviato dal Direttore Generale (oggi si direbbe: Capo del Dipartimento), per risolvere le più svariate problematiche. Io ebbi il privilegio e l’onore di accompagnarlo e di lavorare per lui in tante di queste occasioni.

    Era giunta al Capo la notizia che due o tre camorristi, meglio conosciuti come “i boia delle carceri”, detenuti a Torino erano probabilmente in possesso di coltelli e avrebbero avuto intenzione di assassinare altri detenuti, sequestrando ove necessario delle guardie. Stavamo godendo un breve periodo di ferie estive ma, al richiamo del Capo, ci ritrovammo immediatamente a Torino: il Capo e tre di noi. Enrico decise di fare subito una passeggiata in sezione. Entrò per primo, noi appresso a lui. I tre camorristi ci videro e uno di loro disse: “No, Capita’, pure qua? Non è giusto!”. Erano memori del tempo in cui a Poggioreale, non appena sedammo la rivolta, per circa una settimana nelle ore mattutine noi, uomini di Ragosa, passavamo davanti le celle con delle ceste e i detenuti depositavano i loro coltelli o altre armi rudimentali. Ne raccoglievamo a bizzeffe. Non appena girammo le spalle per andarcene, tre coltelli furono lasciati scivolare sul corridoio, alla portata degli Agenti di servizio.

    Nel cd braccio della morte, Ad Ariano Irpino, gli ultimi 12 detenuti in tutt’Italia sottoposti all’art. 90 (qualcosa di simile al 41 bis) attuavano ormai da circa un mese lo sciopero della fame per protesta contro il regime carcerario ad essi riservato. Alcuni erano i famosi boia delle carceri, altri i cd politici. Tra i politici figuravano appartenenti alla colonna genovese delle BR. Uno in particolare aveva in precedenza pedinato per due mesi il fratello del Capo, a Genova, credendo fosse Enrico. Poi qualcuno si era accorto dell’errore. Non furono capaci di localizzarlo perché il Capo, in quel periodo, cosciente del pericolo, non dormiva mai sotto lo stesso tetto. Non ricordo se fu proprio ad Ariano Irpino che un brigatista gli chiese: “Adesso, per pura curiosità, puoi dirmelo dove abiti!?”. Dopo le necessarie trattative, protrattesi fino alle 23,00 di quel giorno, i 12 decisero di terminare lo sciopero della fame. Ma non avevano fornelli in cella né cibarie. Io e un altro caro collega nonché amico ci recammo in città alla ricerca di una pizzeria. L’idea ovviamente era stata di Enrico. Il Direttore Generale rimase soddisfatto.

    Quando lavorammo in Sicilia, prima a Trapani e poi a Palermo, per la preparazione del Maxi Processo dal punto di vista della sicurezza carceraria, il Capo ebbe modo di osservare i paesaggi della Sicilia, i terreni coltivati, gli uliveti, i vigneti. Le sue considerazioni erano sempre le stesse: “Questa è gente che lavora, gente che si spacca la schiena, gente che vive col sudore della fronte! Non è giusto che, per colpa di quattro mafiosi di *****, la Sicilia debba essere etichettata come terra di mafia!”. E con lui abbiamo fatto e facciamo ancora la nostra parte nella lotta alla mafia.

    Se il buon Enrico, genovese, a Napoli era entrato subito nella mentalità dei campani, in Sicilia non fu da meno. E lo dimostrò ben presto quando, cioè, un esponente mafioso ebbe a lamentarsi con lui perché, a suo dire, “… il Signor Capitano Ragusa …” era stato la causa dell’emissione di un Mandato di Cattura del Giudice Istruttore di Trapani nei suoi confronti. Il Capo gli rispose con una metafora, cioè con lo stesso linguaggio dei mafiosi: “Lei deve sapere che a me piace la pastasciutta. Sono venuto in Sicilia per altri motivi, ma lei mi ha fatto trovare questo bel piatto di pastasciutta, e io non ho saputo resistere!”. Il mafioso fece un sorriso amaro e ingoiò il rospo senza poter ribattere.

    Anche a Trapani Enrico si accasermò coi suoi uomini. E’ sempre stato mattiniero e, di conseguenza, lo eravamo anche noi. O meglio, la mattina ci aveva sempre svegliato, e continuava a farlo, uno per uno con una carezza e una tazzina di caffè: “Sveglia, amore. Ecco il caffè. Dai, su, che dobbiamo andare a zappare!”.

    Lui vedeva sempre avanti nelle cose. Non so se questa prerogativa era uno dei motivi per cui ha sempre parlato molto velocemente. Quella mattina mi presentai nella sua stanza munito del solito block notes e della solita penna. Lavorava con noi, in quel periodo, il fratello di Enrico. Entrò anche lui in stanza. Il Capo incuteva sempre un po’ di timore. “Allora, Beppe”, disse il Capo, “facciamo questo fonogramma per la traduzione (non esistevano i fax in quel periodo), dunque: Da CC - Cap.no Ragosa – Trapani at Ministero eccetera, eccetera … Sì, per la traduzione, hai capito? Bene! Facciamone un altro …”. Me ne dettò una decina e, ogni volta che il Capo ci chiedeva “Capito?”, sia io sia il fratello annuivamo. “Bene, allora andate a zappare!”. “Comandi, Capo!”, e il fratello “Comanda, Enrico!”. Usciti fuori dalla stanza, chiesi al fratello se avesse capito tutto. Mi rispose: “Non ho capito una mazza!”. “Figurati io!” gli risposi. Rientrammo in stanza per farci spiegare nuovamente!

    La pesca è una delle passioni di Enrico. E per quanto possibile, coinvolgeva anche noi. Un fine settimana d’estate lo trascorremmo a Favignana. Ci ospitò un amico. La Domenica mattina facemmo una levataccia, saranno state le quattro. “Sveglia, amore, il caffè. Su, andiamo a pesca.”. Canne professionali al seguito. Trascorremmo circa tre ore al molo senza vedere l’ombra di un pesce. Verso le 9,00 giunse un ragazzino di 12 anni circa, munito di un amo e una specie di filo che assomigliava vagamente a una lenza. In meno di mezzo minuto tirò su un grosso muggine. Rimanemmo stupiti, ma soprattutto mortificati e il Capo disse: “Saremo pure bravi guerrieri, ma da qui andiamocene e alla svelta!”.

    Il Comandante ha sempre avuto nel cuore gli appartenenti al Corpo degli Agenti di Custodia. A Trapani, dove era stata nel frattempo ridata la dignità agli Agenti, il Capo aveva incaricato due suoi uomini per il ritiro, presso la Ceramica Ericina, dei Crest del Corpo che egli stesso aveva ideato e commissionato. Quel giorno andarono a ritirarne un bel po’. Il commerciante consegnò un regalino per il Capo, e qualche regalino per loro stessi. Il Bazzica, furbo napoletano e caro amico del Capo, ammonì Eugenio di non fare cenno ad alcuno dei regali, altrimenti il Capo li avrebbe requisiti. Gli disse: “, Euge’, tu entri nell’appartamento, lo distrai, e io passo dall’altro lato del corridoio e vado in Caserma. Così fecero. Il Capo conosceva bene i suoi polli. Eugenio entrò nella stanza del Capo ma non vide nessuno. Il Bazzica passò dall’altra parte del corridoio, ma non arrivò in Caserma perché trovò il Capo a sbarrargli la strada mentre gli diceva: “Dove ***** vai con quella refurtiva? Posa l’osso!”. Eugenio abita a Trapani e il suo pegno fu quello di recapitare al domicilio del Capo alcune porzioni di lasagne fatte in casa. Le assaggiammo un po’ tutti. Sì, è così, il Capo. Fa il goloso ma poi divide.

    Una cosa lo faceva andare in bestia: quando veniva a conoscenza che uno dei suoi tanti uomini sparsi nei vari istituti della Repubblica era bistrattato in qualche modo dai superiori. Batteva il pugno sul tavolo e diceva: “I miei figli non si toccano!”. Sì, ci considera suoi figli! A volte qualcuno effettivamente se la cercava, ma lui: “Anche se quello è un figlio scemo, è pur sempre mio figlio! Non si devono permettere di trattarlo così. Se necessario, lo punisco io!”. Naturalmente risolveva ogni problema ai suoi uomini.

    Ha sempre tenuto agli Agenti di Custodia. Un giorno un Agente, la cui solerzia nel lavoro era nota, gli chiese udienza per un problema legato a un provvedimento disciplinare, emesso a seguito di un rapporto elevatogli per una fantomatica infrazione sul muro di cinta. Il Capo lesse i fatti contestati e poi, preso il foglio, disse: “Non è buono neanche per pulirsi il ****!”. Chiarì subito la cosa col Direttore che, ovviamente, provvide in favore dell’Agente. Il Capo ama chi lavora.


    Enrico Ragosa: Poggioreale settembre 1982

    Grazie alla straordinaria partecipazione di tanti e tanti colleghi, l’articolo di Nuvola Rossa dedicato al Generale Enrico Ragosa è stato uno dei pezzi più seguiti delle ultime settimana.
    Peraltro, oltre alle decine e decine di commenti, abbiamo ricevuto anche alcuni contributi che narrano aneddoti ed episodi riconducibili alla carriera di Ragosa, che vogliamo pubblicare a più riprese.

    Iniziamo con il racconto dei fatti accaduti a Napoli Poggioreale nel lontano 1982.


    L’ANTEFATTO

    Nei mesi di Agosto e Settembre 1982 la situazione della casa Circondariale di Napoli Poggioreale era diventata intollerabile per quanto riguarda l’ordine e la sicurezza interna. Tremila detenuti appartenenti alla NCO di Raffaele Cutolo ed alla Nuova Famiglia, composta da varie famiglie camorristiche contrapposte a Cutolo, si sfidavano all’interno del penitenziario con risse e sparatorie continue.
    L’Amministrazione Penitenziaria centrale aveva tentato di ripristinare l’ordine all’interno del penitenziario inviando centinaia di Allievi Agenti dalla Scuola di Portici senza successo, tant’è che nel mese di settembre del 1982 il detenuto Ferrara Fortunato fu raggiunto da colpi di arma provenienti da un padiglione interno mentre si accingeva ad andare al colloquio con i famigliari.
    Considerato che non era più possibile per lo Stato consentire una situazione di degrado simile, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia DARIDA convocò il Direttore dell’ufficio Centrale dei detenuti, Cons. Giuseppe FALCONE, il quale propose d’inviare sul posto in nuovo staff direzionale in sostituzione del Direttore dell’istituto, del Comandante degli Agenti di Custodia dell’istituto e del Comandante Regionale sempre degli Agenti di Custodia.
    Il 23 ottobre del 1982 furono inviati l’Ispettore Distrettuale CICCOTTI, il Direttore Giacinto SICILIANO ed il Capitano degli Agenti di Custodia Alfonso MATTIELLO, il quale fu il primo e l’unico Ufficiale ad avere l’incarico di Comandante di un istituto e contemporaneamente di Comandante Regionale.
    Nei giorni successivi l’Ufficiale, resosi conto della situazione drammatica all’interno dell’istituto si fece inviare l’equipaggiamento completo di una squadra “SAI” composta da circa 20 unità di Agenti di Custodia, la quale era stata addestrata per interventi speciali, era presente nell’istituto ma senza alcuna disposizione d’impiego. Nei giorni immediatamente successivi iniziò un confronto durissimo con centinaia di detenuti che vagavano per l’istituto armati.
    Vi furono diversi scontri a fuoco con i detenuti al punto da richiedere con urgenza assoluta l’invio di altre munizioni che furono portate da Roma con auto blindate. Dopo cinque giorni di scontri continui i detenuti compresero che lo scontro non era più possibile con il personale del Corpo e si rinchiusero nelle loro celle attendendo l’inizio delle operazioni di perquisizione generale.
    In quei giorni a rafforzare il contingente di personale fu inviato a Napoli Poggioreale il Capitano Ragosa insieme ad altre unità di personale anziano che avevano già lavorato con lui in altre strutture penitenziarie.
    Verso la metà di dicembre del 1982 a causa di contrasti sorti fra il Capitano Mattiello ed il Direttore dell’istituto, Dott. Siciliano, non fu più rinnovato il mandato di Comandante dell’istituto per l’Ufficiale che fu affidato al Maresciallo Ciro Granada.
    Il Capitano Mattiello restò su Napoli in qualità di Comandante Regionale ed il capitano Ragosa restò a Napoli Poggioreale insieme ad un gruppo di persone, per alcuni mesi al fine di gestire la normalizzazione dell’istituto.


    IL RACCONTO

    "Lo conobbi nel 1982. Ci sarebbe molto da dire, ma mi piace ricordare qualche aneddoto sul Generale Enrico Ragosa alias: Lui, Furia, il Comandante, il Capo, Enrico, Papà, ecc. ecc. …




    Poggioreale, Settembre 1982.



    Il Capitano Enrico Ragosa giunse in un istituto allo sbando, che non aveva timone. Moltissimi Agenti di Custodia rimanevano a casa in malattia. Un solo Agente era in servizio al Padiglione Salerno, senza chiavi, e con 400 reclusi. Ciò valeva anche per le altre sezioni detentive. I camorristi avevano il carcere in mano. Nel giro di un mese due Agenti, liberi dal servizio, erano stati assassinati. Successivamente, un detenuto camorrista era stato ferito con un colpo d’arma da fuoco, mentre si recava alla Sala Colloqui, da un altro detenuto di frangia opposta. I camorristi erano armati. Ragosa, che era venuto con la sua cd “squadretta”, si ritrovò a disposizione anche una ventina di ragazzi ben addestrati all’uso delle armi, provenienti dalla Scuola di Cairo Montenotte. Usavamo dei nomi di copertura: Piedone, Garibaldi, Truciolo, Brigitte, Peppe l’Avvocato …

    Uno di essi, in particolare, gli rompeva continuamente le “palle” per rappresentargli la mole di problemi riscontrati nei giorni precedenti. Si trattava di un Agente di Custodia, siciliano, con poco meno di due anni di servizio alle spalle. All’ennesima rottura di p…., Ragosa lo apostrofò gridando con la sua potente voce: “Zitto, tu! Chi sei?”. Il ragazzo rimase allibito, ma Ragosa tolse due stellette dalla sua tuta mimetica e le mise su quella dell’Agente e gli disse: “Adesso sì che possiamo parlare, collega!”. Ovviamente, dopo un minuto, le stellette ritornarono al loro posto. Ciò che successe dopo è storia: lo Stato si riappropriò del carcere e gli Agenti di Poggioreale ritrovarono la dignità e la sicurezza sul lavoro. Anche i detenuti comuni ci dissero: “Adesso possiamo farci la galera in santa pace!”.

    Il Ministero, infatti, aveva nel frattempo disposto la traduzione a Pianosa di un centinaio di camorristi autori dei disordini. L’Arma dei Carabinieri era ancora competente per le traduzioni. Ricordo che un Capitano dei Carabinieri disse a Ragosa: “Non riuscirai mai a farli salire sui pullman!”. E Ragosa ridendo: “Non ho bisogno dei tuoi uomini, ho i miei! Piuttosto prepara le manette. Io te li porterò ai pullman”. La mattina delle traduzioni i pullman si presentarono alla porta carraia e, di lì a poco, si udì un rumore assordante: era quel centinaio di camorristi che in fila per tre, agli ordini di quel semplice Agente siciliano e sotto lo sguardo attento e divertito di Ragosa, marciavano battendo per bene i tacchi per terra e si dirigevano ai pullman. Ai Carabinieri non rimase che ammanettarli in tutta tranquillità. Il Capitano dell’Arma dovette incassare il colpo.

    La campagna napoletana durò più di un anno. Tanto ci volle per … ricostruire il carcere. Ragosa si era accasermato insieme alla sua nuova squadra, formata dai “vecchi” e da alcuni dei nuovi Agenti venuti da Cairo Montenotte, i cd ragazzi della SAJ (Sezione Addestramento Judo). Sicuramente gli antesignani del GOM. Si lavorava giorno e notte, senza sosta. Si dormiva a spezzoni e, a volte, anche all’interno di qualche ripostiglio in sezione. Ma non soffrivamo. Il Capo ci diceva: “Un guerriero non dorme e non mangia, ma lavora sodo e in silenzio!”. E ce lo dimostrava col suo esempio!

    Ricordo che facevamo i turni per le pulizie e in cucina. Nel poco tempo libero, Enrico si dilettava a cucinare il risotto. Stava lì per ore a rimestare il suo risotto in pentola, a volte lo rimestava qualcuno di noi per lui. Un appuntato pugliese, invece, sapeva cucinare solo le polpette al sugo. Così diceva. In realtà aveva chiesto aiuto alla consorte, per telefono. Ed erano sfottò, nell’ora di pranzo! Si disponeva di una tavola per una quindicina di persone. Quel giorno si mangiava il riso del Capo, e l’Appuntato pugliese vantò le sue polpette, a discapito del riso, in un momento poco opportuno. Il Capo era infatti preso dai molti problemi di lavoro per cui afferrò il suo piatto col riso e lo scaraventò contro il muro. Il riso rimase appeso alla parete, il piatto attaccato al riso. Cominciarono a scivolare verso il basso, lentamente. Ci guardavamo tutti attoniti e rimanevamo quasi sgomenti quando il capo si incazzava, ma quella volta guardammo la parete, poi l’Appuntato, poi il Capo e scoppiammo in una fragorosa risata. Il Capo per primo.

    Talvolta, nel pomeriggio, veniva a trovarci in Caserma un altro Capitano degli Agenti di Custodia, campano, anche lui coraggioso, bravissimo e simpaticissimo. Era … di famiglia. Si intratteneva col Capo per discutere dei problemi di lavoro. Ogni volta che doveva uscire dalla Caserma, Enrico ci comandava: “Perquisitelo. Sono sicuro che ci sta fregando qualcosa!”. Non sbagliava. E giù le risate durante la perquisizione!

    Il giorno in cui tornarono i camorristi da Pianosa per presenziare al processo, venimmo a conoscenza che alcuni di essi occultavano dei coltelli all’interno del loro intestino. Cosa fare? Non era da tutti saperli occultare in quel modo! Il Capo si fece venire l’idea, un breve consulto col Direttore e col Sanitario, e la decisione fu presa: raggi x per tutti. I … positivi vennero convocati, uno per uno, all’Ufficio Comando. Vennero recuperati sei o sette coltelli a serramanico. Un camorrista … depositò il suo. Il Capo gli disse: “Ti faccio i miei complimenti perché suppongo non sia facile espellere un coltello a comando. Ma dimmi: a cosa ti sarebbe servito?”. Timida risposta: “Per difesa personale!”. Il Capo: “Ah, capisco! E l’altro che hai ancora in corpo a che ti serve, a raschiarti il buco del ****? Vallo a cagare immediatamente!”. La lastra infatti mostrava due coltelli ben allineati. Quel detenuto, esponente camorrista, fece la classica figura di m…!

    Si continuava a non dormire e a lavorare sodo. Tra i camorristi si era sparsa la voce che gli appartenenti alla “squadretta” assumessero chissà quali sostanze per rimanere svegli. Un detenuto calabrese, ma camorrista, ebbe invece a dire: “Ma quali sostanze e sostanze. Con un Capo come quello lì, certo che ce li ritroviamo dappertutto questi qui. E ci ha scovato i coltelli pure in ****! Questi sono uomini!

    Terminò la campagna napoletana. I … vecchi tornarono presso le loro sedi e alcuni tra i ragazzi di Cairo Montenotte furono trasferiti a Roma."

    Ottima iniziativa solo che per dargli più visibilità io cambierei il titolo in " Racconti storici della polizia penitenziaria e metterei la discussione in rilievo.....
    Ultima modifica di A_N_T_O_N_Y; 25-02-12 alle 14: 53

  2. #2
    Maresciallo
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    Va benissimo

  3. #3
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    Predefinito Commemorazione Antonino Burrafato - Vice Brigadiere ucciso dalla mafia

    “Antonino Burrafato era un integerrimo poliziotto in servizio nel carcere dei Cavallacci di Termini Imerese, dove era detenuto il boss Leoluca Bagarella, cognato di Salvatore Riina. Burrafato era un uomo che osservava alla lettera il regolamento e che non concesse mai al capomafia trattamenti di favore o anche solo riverenza. Tantomeno il permesso per recarsi al funerale del padre. E’ per questo che, su ordine dello stesso Bagarella, Burrafato venne ucciso da un commando mafioso, mentre si recava al lavoro. Una vittima di mafia, una vittima del dovere, un esempio di integrità morale e di senso dello Stato. Un senso dello Stato ben diverso da quello di altri che, soltanto dieci anni dopo il suo vile assassinio, erano intenti a trattare con Cosa Nostra, consapevoli che quei negoziati, come si è poi verificato, avrebbero potuto rafforzare l’animo stragista della mafia”.


    Oggi ricorre il 30° anniversario dell'omicidio del vicebrigadiere della Polizia Penitenziaria Antonino Burrafato, ucciso dalla mafia il 29 Giugno del 1982 a Termini Imerese e riconosciuto "Vittima del Dovere" ai sensi della Legge 466/1980 e, in data 26.6.2006 gli è stata conferita la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla Memoria.
    Alla cerimonia era presente il Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino.
    FRANGAR, NON FLECTAR
    (CI SPEZZIAMO, NON CI PIEGHIAMO)

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