Bene, ci siamo. Infondo saremo pure nel Militari Forum, ma non possiamo sempre discutere di palette lampeggianti pistole uniformi concorsi codici penali civili di procedura eccetera. Sotto ad una divisa pardon un'uniforme, c'è sempre un uomo. (O una donna). Un uomo (sì, abbiamo capito: anche una donna) con le proprie paure, i propri difetti, le proprie emozioni. Prima di arruolarmi, tanto desideravo l'uniforme, che credevo quasi sarebbe stata come un’armatura. Credevo insomma, che con la-divisa avrei superato con più facilità gli ostacoli che tutti, nella vita, dobbiamo saltare. Quasi che anziché rimanere un uomo come tutti gli altri sarei diventato una cosa, una cosa inviolabile e forte. Una divisa e basta. Con quella addosso, non sarei più arrossito nelle situazioni imbarazzanti, non mi sarei più sentito a disagio o inadatto, non mi sarei più fatto mettere i piedi in testa da nessuno. La soluzione a tutto e un modo per diventare più-degli-altri. (Sia ben chiaro, non mi sono arruolato per questo. Mi sono arruolato perché adoro fare il carabiniere e lo considero il mestiere più bello del mondo). Poi ti accorgi pian piano che vestendola ogni giorno, (l’uniforme), ti scordi pure d’averla addosso. E te ne ricordi quando passi davanti ad uno specchio o la tua immagine riflette sui finestrini dell’auto. E d’un tratto pensi: *****!, sono-proprio-io-quello-lì. Già, sei proprio quello lì. E poi? Quando non sei vestito così o non ci sono specchi? Beh, appunto, sei quello che sei sempre ossia un uomo come ogni altro uomo. Un uomo che deve fare i conti con i propri errori le proprie paure le proprie emozioni eccetera. Ma questo già l’ho detto. Ormai sai bene, insomma, che la divisa non ti rende sempre più forte agli occhi degli altri. Anzi. E ben di meno ai tuoi, di occhi.
Ah, ho esordito che siamo nel Militari Forum ma non possiamo parlare sempre di palette lampeggianti uniformi eccetera. Devo essere coerente, quindi: dove voglio arrivare? A questa maledetta nostalgia, di cui sono schiavo e di cui non riesco a liberarmi. Mi sento vulnerabile, troppo vulnerabile in questo periodo: ho passato tre anni straordinari in Esercito, e ne ho vissuti altri due e mezzo altrettanto straordinari nell’Arma. Tanti amici, tante persone a cui ho voluto e voglio bene. Tanti “fratelli”, come è consuetudine definirsi, con cui ho condiviso tanto, troppo. Mattine di sveglie che iniziano a suonare in una grande camera: ogni sveglia un suono differente, ogni sveglia una vita differente. Poi la processione inizia, asciugamano in spalla e beautycase in mano. Con gli occhi ancora semichiusi finiamo ognuno davanti a uno specchio e a un lavandino, ognuno accanto all’altro. Chi usa la schiuma da barba spalmandola nelle mani, chi usa (ancora!?) il pennello come faceva mio nonno. Chi usa la lametta super-potente-rasatura-perfetta-e-pelle-liscia-in-un-attimo, chi è affezionato alla monouso. Chi si taglia, chi non si taglia. Chi canta, chi sta in silenzio. Chi mette il cellulare affianco al beautycase con la canzone di Malika Ayane “Come foglie”, (Ma-allora-come-spieghi-questa-maledetta-nostalgia. Tanto per restare in tema). Chi finisce prima, chi finisce dopo. Ma tanto poco dopo, ci si ritrova tutti giù allo spaccio a far colazione. Chi si beve il cappuccino, chi il caffè e chi il latte macchiato. Chi mangia un cornetto chi ne mangia due e chi anziché cornetto lo chiama brioche. Chi appena fatta colazione già sta al telefono con la ragazza (queste ragazze che alle 7.30 del mattino hanno voglia di stare al telefono!), chi si mette a parlar del più e del meno e chi se ne sta in un angolino. Poi tutti inquadrati, plotone-apposto-plotone-A-ttenti! Plotone-avanti,march! Chi perde il passo e tenta di riprenderlo, chi lo perde e non gliene frega un tubo, chi parla chi si spinge chi sta ancora dormendo. Plotone-alt! Ri-poso! A-ttenti. Alzabandiera! Chi canta, chi non canta, chi è stonato, chi urla. Chi sta sugli attenti, chi non ci sta. Tutti diversi. Ma tutti uniti per un solo obiettivo: fare, diventare, carabinieri. Fratelli che impari a conoscere bene, e con loro impari a conoscere i relativi difetti e pregi. Capisci bene cosa non sopporti di qualcuno e cosa invece stimi o invidi di altri. Con alcuni manco ti saluti, con altri esci ogni sera per andare a far l’aperitivo in Corso Garibaldi (Torino) e poi ficcarti dentro il ristorante a mangiare meglio che puoi per compensare lo schifo della mensa di qualche ora prima. Insomma, senza rendertene conto ti affezioni a quelle persone, a quei ‘fratelli’, credendo forse che non li perderai mai. I pensieri infondo sono altri: finirà pur questo cacchio di corso, andremo pur al reparto a fare le cose-serie, a lavorare, a combattere il crimine perdio! Finiranno queste interrogazioni e queste regole vive solo nelle scuole e per gli allievi, giusto? Giusto. Arriveranno pure questi alamari, questo tesserino e questa calibro nove. Giusto? Giusto. Finiranno questi viaggi del fine settimana in treno per tornare a casa e per rimanerci un giorno solo alla settimana se va bene, giusto? Giusto. E ponendoti queste domande, non assapori il presente. Non ti rendi conto che stai vivendo istanti irrepetibili e che rimpiangerai per sempre. Non ti rendi conto che stai crescendo insieme ai tuoi ‘fratelli’, che di loro ti rimarranno ricordi straordinari e che presto non saprai neppure dove saranno e che faranno. Pensi a finire, a bruciare il presente perché quel che conta è solo il futuro. Il lavoro, quello per cui hai lottato. La divisa alla quale aspiravi e che finalmente hai, ma non basta: non la stai ancora “sfruttando”, è solo un vestito per ora. Poi arriveranno le cose serie, da uomini. E così ignori che le i minuti le ore i giorni passano scivolandoti accanto, perché la tua testa è concentrata solo sulla fine. Tutto ciò che di bello stai vivendo è solo un contorno del quale magari faresti pure a meno. Perdio, che errore! Poi il corso finisce. Devi svuotare l’armadio e quasi ti pare impossibile che in un anno là dentro ci sia finita così tanta roba: roba della quale t’eri pure scordato. Torna alla luce pure la lettera di benvenuto del Comandante, quella consegnata il primo giorno: sorridi, tanto ormai non è più affar mio, sono un carabiniere a tutti gli effetti. Ognuno si prepara le proprie borse. Ognuno controlla su google e wikipedia in quale sconosciuto e mai sentito prima luogo d’Italia è finito. Poi arriva il momento: dopo un anno capisci tutto ciò che stai lasciando, e ti arrabbi perché non l’hai capito prima. Dopo un anno realizzi le persone che stai abbandonando, gli amici che perderai. Dopo un anno pensi che forse quel letto in mezzo ad altri dodici non era così malvagio, quei bagni coi lavandini in fila non erano così scandalosi. (O forse lo erano ma non vuoi ammetterlo). La canzone “Come Foglie” col collega che la cantava sembrando una checca non era un ‘buongiorno’ poi così traumatico. Dopo un anno, capisci insomma che sotto tutte quelle divise c’erano delle persone, molte delle quali ti mancheranno per sempre. Ma ormai è tardi, ci dovevi pensare prima a vivere a fondo quei momenti, assaporandone ogni istante rimanendo più sul presente che sul futuro. Il futuro è arrivato, e non sei più così convinto di volerci passare troppo tempo.
Ora fai i conti con le tanto ambite cose-serie. Con i turni, il lavoro, i colleghi di venti e trenta anni più vecchi, che finiscono le sei ore e tornano da moglie e figli. Altro che aperitivo in Corso Garibaldi. Altro che pizza da “Verace”. Altro che ammazzacaffè allo spaccio prima di andare a dormire. E mentre finisci le sei ore chiedendoti dopo che farai, ti arriva un messaggio sul telefono. È un collega, un ‘fratello’. “Per tutta la vita ricorderò i momenti passati in quel gruppetto di poche buone persone che eravamo riusciti a creare… un anno di sorrisi, di litigi di lacrime… un anno di speciali ricordi! Ora ti scrivo; potremmo non vederci o sentirci poco, ma con tutta sincerità vivi nei miei pensieri così come nel mio cuore! Manuel fratello ti stringo forte forte urlando che ti voglio un gran bene”. Già, ora non mi rimane che fare i conti con questa maledetta nostalgia.
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